Francesco Acerbi: Dal tumore al campo, storie di un difensore senza fronzoli #Acerbi #Inter #Calcio
Francesco Acerbi, difensore dell’Inter, ha condiviso in un’intervista a Sky Sport i dettagli del suo libro “Io, Guerriero”, parlando apertamente della sua rinascita dopo la malattia. È un racconto crudo, dove il calciatore non si nasconde dietro eufemismi, ammettendo che la vita non è sempre una passeggiata. “Dopo la malattia ho vissuto una vera e propria rinascita calcistica. È stato un momento complicato, ma da lì è iniziato il mio percorso personale, in cui ho provato – e provo tuttora – a raccogliere quante più soddisfazioni possibili. La sfida con il Barcellona? Una serata incredibile, probabilmente la più bella, anche se alla fine non abbiamo alzato trofei. Tutto è arrivato in modo naturale, sono sensazioni che ti nascono dentro e che impari ad accettare perché più grandi di te. Una volta che capisci davvero cosa vuoi, la strada si fa meno ripida. La vita va curata nei dettagli, ma tutto parte dalla testa: cercare scuse significa finire in un vortice da cui non esci più”.
Acerbi non edulcora la pillola quando si tratta della sua battaglia personale, sottolineando come la forza interiore sia emersa dal caos. È quel tipo di giocatore che preferisce sfogarsi sul campo piuttosto che lamentarsi, e le sue parole lo confermano. “Il concetto è quello. Perché per la malattia in sé non ho messo impegno in niente, sono quelle cose che ti vengono fuori da sole. Poi succedono cose più forti di te, le accetti, e se ci sono cose positive la strada poi diventa tutta in discesa. La vita sana non vuol dire soltanto andare a letto presto o non bere mai un goccio di vino o fare tutto alla perfezione, ma sapere quello che vuoi dentro la tua testa. Poi la vita sana è cercare anche riposare e tutte le cose che fanno bene, ma quello che fa la differenza sono le motivazioni che ti scattano dentro di te ogni giorno per raggiungere obiettivi personali e di squadra senza cercare alibi perché gli alibi ti portano ad un vortice negativo che non fa bene. Bisogna sempre guardarsi dentro e cercare di migliorarsi senza alibi”.
Passando al lato più pratico, Acerbi spiega l’azione che ha portato al gol contro il Barcellona, con un tocco di quell’irriverenza che fa sembrare il calcio un gioco da strada. Non è il tipo che si vanta, ma fa capire che a volte basta un po’ di fegato. “Sull’aneddoto legato a Darmian (al quale ha detto di tenere d’occhio i quarti perché lui sarebbe andato in avanti, ndr) è stato proprio Matteo a raccontarmi di averglielo detto durante la partita, io non lo ricordavo, ma l’avevo detto sicuramente perché dico sempre qualcosa quando vado in attacco. Io ricordo che sul gol di Rafinha non ho detto niente, non ero incavolato. Non era stata una partita che avevamo in pugno, eravamo sul 2-0 sì, ma nel secondo tempo non avevano mai tirato in porta, forse qualche calcio d’angolo, poi il Barcellona è una squadra fortissima quindi ho detto ‘vado su’. Tanto tra 3-2 o 4-2 è uguale, vai a casa. Quindi tanto valeva andar su, ho pensato che se la palla arriva volevo essere lì. Poi mi sono ritrovato lì e ho fatto gol. È stata una sensazione bella, ma l’ho vissuta di più nei giorni dopo, perché la voglia era di andare in finale. Abbiamo fatto il 3 pari, tutto bellissimo, ma se fossimo andati a casa non sarebbe stato lo stesso”.
Il suo approccio alla scarpa bucata è puro pragmatismo, senza badare all’estetica – dopotutto, chi se frega dello stile se funziona? È un promemoria che nel calcio, come nella vita, a volte devi sporcarti le mani. “C’è una spiegazione a tutto. Il buco l’ho fatto perché avevo l’unghia nera, per via dei pestoni e mi faceva male. Così ho fatto un buco per risolvere il problema, l’avevo già iniziato a fare a novembre. Io ho sempre dolore alle scarpe e se mi trovo bene con un paio di scarpe, anche se son belle che mi frega di fare un buco? Non devo essere bello. Magari tanti li fanno sul tallone per via delle vesciche. Io avevo il dito che mi faceva male e ho bucato la scarpa sul dito”. E collegandolo al calcio di provincia, Acerbi evoca ricordi senza filtri, mostrando che le radici contano più delle luci dei grandi stadi. “Io sono di generazione un po’ vecchio stampo: giocare a qualunque ora del giorno, da solo anche, sotto la pioggia. Quando vado a cena con mia moglie e passo dai paesini e vedo i ragazzini che giocano a calcio mi emozionano ancora. Io sono nato un po’ in quella situazione lì, quando si giocava sempre a qualsiasi orario e condizione climatica. Bello sì il calcio di strada”.
Sul tema delle cadute e risalite, Acerbi trasmette un messaggio diretto: non si tratta solo di vincere, ma di non arrendersi mai, anche quando fa male. È un approccio schietto, dove la fatica è un’alleata, non un nemico. “Vincere è la cosa finale e secondo me il lavoro paga sempre, poi non sempre si vince. Ma quello che ho capito è che sicuramente non è la sofferenza il problema, perché io lavoro con la sofferenza e la fatica e mi piacciono pure, altrimenti non m sento realizzato. Sono gli obiettivi che ti dai e la sofferenza e il tempo che ci metti per raggiungerli che fanno la differenza. Dare il 100% anche quando le cose non funzionano bene, devi sempre cercare, anche nei momenti di delusione, di sapere la strada e dare il massimo di quello che hai. È quella la cosa che mi appartiene: dare tutto sempre. Sperando che quando finirò di giocare a casa potrò dire ‘bravo comunque, hai dato tutto, non hai rimpianti’. È questo ciò che mi sono detto e ridetto dopo la malattia. Poi quando smetto vedrò, fino a quel momento cercherò sempre di dare il massimo di quello che posso dare”.
Parlando degli allenatori, Acerbi è onesto sui suoi trascorsi, senza peli sulla lingua, evidenziando come ognuno abbia lasciato un segno.
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Sul fronte della Nazionale, Acerbi è diretto e un po’ cinico riguardo alle sue esperienze recenti, senza nascondere delusioni. “Io ho detto quello che è successo senza fare polemica anche perché non è neanche giusto andare avanti con questa storia. Però nel momento in cui non sono andato all’Europeo perché mi sono operato anche se ho fatto di tutto per andarci, ma ho fatto bene ad operarmi, non ho ricevuto nessuna chiamata né niente. Non mi aspetto niente da nessuno nel calcio però Spalletti non mi ha più chiamato e basta, è finita lì. Lui è l’allenatore, viene pagato per decidere i giocatori da prendere ogni volta e se non mi vedo nella lista pace e amen. Non mi faccio un problema perché è lui a decidere, poi però ci sono stati dei fatti, poi la chiamata che mi fece lui dopo delle dichiarazioni non bellissime che un allenatore secondo me non dovrebbe mai fare in pubblico. Cosa c’entrava poi? Ci sta dire certe cose dopo una sconfitta però… Poi ho deciso io. Mister Spalletti mi aveva chiamato già due volte, poi mi ha chiamato la mattina dicendomi quasi scusa lasciandomi intendere alcune cose, io ho detto ok. Mi ha fatto capire che c’erano degli infortunati e che avrei fatto la partita con la Norvegia e poi basta. Non mi ha detto che magari se avessi fatto bene mi avrebbe considerato per il Mondiale, anzi… Quindi non è stato molto bello, questa telefonata più quelle tre-quattro cose precedenti, a 37 anni mi sento un poco usato. Vorrei vedere chi a 37 anni dopo aver giocato tanti anni se avesse accettato una partita e basta, grazie e stai a casa. Io non sono Messi, non sono Pelé, non sono nessuno però dopo quello che è successo mi richiami dicendomi queste cose…”. Non nasconde l’ottimismo per il futuro, però, con un tocco di realismo. “Ci spero perché conosco i ragazzi e gli italiani. Sarebbe il terzo a cui non andremmo e sarebbe una cosa fuori dal normale. I ragazzi sono forti, abbiamo preso un allenatore forte, e non dico che Spalletti non lo fosse eh, ma è un allenatore che mette grinta, passione. Abbiamo una grandissima possibilità di farcela”. E sulla sua disponibilità: “Per me il calcio è molto importante. Quindi io vivo per la mia famiglia e per il calcio, ci tengo molto e ho sempre detto che fin quando giocherò ci sarò sempre per la Nazionale, anche se non in quella circostanza. Non era un addio il mio, ma Gattuso stesso ha detto per ora ‘no’. È lui l’allenatore, è lui che decide, se dovesse chiamarmi mi faccio trovare pronto altrimenti vado avanti come sempre fatto”.
Con il cambio da Inzaghi a Chivu, Acerbi nota differenze senza troppi giri di parole, apprezzando l’intensità nuova. “Sì, basta anche con lo shock della finale perché siamo grandi e vaccinati. Fa malissimo quella sconfitta, ma abbiamo avuto dei mesi per pensarci, poi però quando si riparte bisogna resettare e andare avanti come in ogni cosa. È arrivato Mister Chivu che si vede che ha giocato e vinto con gruppi forti e si vede come prepara le cose che sono diverse. Gli allenamenti sono diversi da quelli con Inzaghi, sono belli intensi. È una brava persona, ha ottime idee. Mi ha molto stupito in positivo perché sa cosa vuol dire vincere e perdere, sa cosa pensiamo perché è stato giocatore poco tempo fa, ha vinto e giocato in spogliatoi importanti e sa cosa vuol dire avere un gruppo che in questi anni ha fatto cose importanti. Si vede che è intelligente”.
Infine, sul marcare avversari come Haaland, Acerbi si vanta un po’ con quel suo stile terra terra, ammettendo che gli piace la sfida senza false modestie. **”A me piace anche sfidare me stesso. Cosa mi ha chiesto Haaland col City? La maglia? Sì, io gliene ho chieste due e lui mi ha mandato giustamente a c*e. A me piace molto confrontarmi con campioni, ma ci sono anche attaccanti forti che non giocano nel City, ma che sono forti e mi mettono in difficoltà, ci metto sempre impegno cercando di mettere in difficoltà loro e aiutando la squadra”. In sintesi, Acerbi è il classico giocatore che preferisce i fatti alle chiacchiere, un guerriero che, nonostante le intemperie, continua a correre.