L’ex mago italiano si è espresso alla Gazzetta dello Sport: “Un tempo ti insegnavano l’umiltà, a giocare per il bene degli altri, per la squadra”.
In occasione della campagna “Tutti i campo” di Roberto Baggio quale testimonial, La Gazzetta dello Sport è andata a consultarla. L’ex giocatore ha condiviso alcune dichiarazioni. Roberto, qual è il suo primo ricordo da bambino sul campo di Caldogno? “Le sfide interminabili con i miei compagni di scuola, i parenti, gli amici. Tornavamo a casa, svoltavamo rapidamente un boccone e già eravamo in campo. Giocavamo ogni santo giorno, senza limiti, fino a quando l’oscurità o le grida dei genitori ci costringevano a tornare a casa. Sfiniti. Stanchi…”.
Faceva parte della squadra del suo paese? “All’inizio no, erano partite tra amici. E io organizzavo le convocazioni. Prendevamo un foglio, disegnavamo un palo con la bandiera dell’Italia e sotto c’erano le due squadre con le formazioni, ma i nomi erano sempre gli stessi. La chiamata era alle due e mezza e chi non arrivava in orario non giocava. Non avevamo scarpe da calcio, usavamo i mocassini.
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Qual è l’insegnamento che ha portato con sé per tutta la vita? “Un tempo ti insegnavano l’umiltà, a giocare per il bene degli altri, per la squadra. Non era concesso a nessuno volare troppo in alto. Con quei allenatori lì, bisognava mantenersi colli piedi per terra. Era una scuola di calcio… e di vita. In piccolo c’erano tutti i valori e le regole che rimangono valide per sempre. Per me è stato così”
Le capita mai di andare a vedere qualche partita di giovanotti? “Ci sono andato una volta per una partita di mio figlio e mi è bastato. Ho assistito a una scena brutale: genitori che litigavano per una situazione di gioco banale. Sono scappato e mi sono ripromesso di non tornarci più. Una volta i genitori non potevano permettersi di alzare la voce. Nemmeno con il proprio figlio. Oggi penso che manchi una sana educazione sportiva e troppo spesso i genitori sugli spalti fanno cose peggiori dei figli in campo”.