Analisi pungente sui festeggiamenti del Napoli: Vince chi vince, ma non vendere l’anima! #NapoliVittoria #CalcioIdentità #AzzurriRibelli
Guido Clemente di San Luca, docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Vanvitelli, ha espresso le sue opinioni senza mezzi termini sulle recenti celebrazioni del Napoli, smontando con ironia quel falso mito della "vittoria a tutti i costi".
"Non mi piace il modo in cui sono stati letti e rappresentati i festeggiamenti per la vittoria. Non mi piace affatto la costruzione della ‘normalità’ vincente, giustapposta alla realtà. Nemmeno mi piace l’auspicata abitudine alla vittoria come se il resto non contasse. Mi piace vincere, certo, ma nel segno dei nostri tratti identificativi. Non mi piace farlo assumendo quelli di chi da sempre ha costituito il nostro antipode. Non mi piace la retorica della omologazione al modello culturale mitteleuropeo (posto che ce ne sia ancora uno). È manifestazione di un provincialismo perverso. Il sapore ed il gusto della vittoria hanno senso pieno se la otteniamo nel segno della nostra identità. Detesto il racconto dell’essere ormai noi i più forti ed ambiti. Disvela una sostanziale grettezza. Che abbiamo vissuto sempre nell’invidia. Che non coltivavamo virtuosamente l’alternativa. Che non volevamo sconfiggere il modello degli avversari. Che non vedevamo l’ora di poterlo fare nostro."
"Ma è così? A me non pare. Nessuno discute la contentezza euforica per la vittoria, specie se all’esito di un finale di stagione che è parso la realizzazione di una sceneggiatura scritta dal più sofisticato scrittore di gialli. Avreste dovuto vedermi, e ascoltare le mie urla di gioia, per misurarne la eccezionale intensità. Sì, ma che c’entra? Questa vittoria non può, né deve, essere letta nella maniera che tradisce la nostra identità. Nel DNA del popolo azzurro c’è il gusto del bello. Non possiamo accettare pedissequamente di appiattirci sulla cultura della vittoria ad ogni costo. Perché significa tradire la nostra essenza, diventare come loro. Vogliamo forse dimostrare che siamo stati ipocriti ad invocare per anni la legalità affinché la competizione si svolgesse lealmente? Che in realtà l’unica cosa che provavamo era invidia livorosa per chi vinceva, non il disprezzo e la riprovazione per come lo facessero?"
In questo periodo di euforia mista a incertezze, con il calciomercato che fa da sfondo caotico, alcune dichiarazioni meritano un esame crudo. Prima fra tutte, quella del Presidente, che giura di restare al timone fino all’ultimo respiro, lasciando ai figli la patata bollente: "i miei figli decideranno che fare". Lui stesso afferma di non essere mosso dai soldi – "Se mi offrono 2 miliardi e mezzo io non vendo" – ma da un’idea legata alla napoletanità. Senza giri di parole, questo tizio è il presidente ideale: un furbo impresario che mescola affari e passione popolare, anche se a volte si perde in egocentrismi da strapazzo che gli tornano indietro come un boomerang.
Un’altra notizia che fa discutere è il ritratto di un allenatore vincente emerso da un’intervista. Si tratta di un tipo tosto, senza fronzoli, che incarna la mentalità "vince chi vince", punto e basta, senza badare a come o con quanta grazia. "Il participio aggettivante è attribuibile solo sulla base dei fatti: è tale chi ha vinto, senza alcun riferimento ad altro, senza chiedersi in che modo, con quanto merito, con quanta buona sorte, se dimostrando superiorità, se offrendo anche godimento estetico. È vincente chi vince, a prescindere da come." Questo approccio stride con l’essenza azzurra, che preferisce il bello al brutale, come ben evidenziato dalle parole di Papa Leone XIV durante una messa dedicata allo sport: "in una società competitiva, dove sembra che solo i forti e i vincenti meritino di vivere, lo sport insegna anche a perdere, mettendo l’uomo a confronto, nell’arte della sconfitta, con una delle verità più profonde della sua condizione: la fragilità. Il limite, l’imperfezione. Questo è importante, perché è dall’esperienza di questa fragilità che ci si apre alla speranza. L’atleta che non sbaglia mai, che non perde mai, non esiste. I campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che, anche quando cadono, trovano il coraggio di rialzarsi."
Alla fine, l’allenatore in questione ha accettato la sfida, forse persuaso da chi sa quale trucco o da pressioni affettuose. Che abbia trovato la sua "via di Damasco"? Lo vedremo sul campo, specialmente con l’arrivo di un fuoriclasse che forza il cambio di stile. "L’arrivo di KDB lo ‘costringe’ a rivedere quello esibito nella scorsa stagione (sotto il profilo estetico, obiettivamente, uno dei più brutti Napoli dell’era De Laurentiis). Non si può fare affidamento solo sul kairos favorevole, non sempre succede che gli astri si congiungano in maniera propizia, non sempre capita di avere la inaspettata alleanza, l’uno a seguire l’altro, di Soulé, Orsolini e Pedro (che abbiamo benedetto dopo immani sofferenze tifose). KDB è un fuoriclasse, perfettamente in linea con il desiderio e lo stile partenopei, golosi di bellezza. Nel Napoli della scorsa stagione non avrebbe trovato collocazione. Il suo arrivo ‘imporrà’ a Conte di cambiare il modo di giocare."
C’è poi la strana storia di certi gesti che nel mondo del pallone sembrano roba da un’altra era: un tecnico che rinuncia al contratto dopo essere stato buttato via come un rifiuto, e un giocatore che snobba 40 milioni per inseguire un "sogno" in Premier. "Spalletti, sollevato con modalità indecenti dall’incarico di c.t. della nazionale, rinuncia al contratto e si dichiara disponibile alla rescissione consensuale. Un gigante in un mondo popolato da uomminicchi e quaquaraqua. E poi Osimhen, che rinuncia ai 40 milioni a stagione degli arabi «perché il suo sogno è la Premier». Dunque, avrebbe un sogno per realizzare il quale guadagnerebbe molto ma molto meno? Qui, però, bisogna stare attenti. Scenario non implausibile: ADL non vuole rinunciare alla clausola, ma nessuna società gradita al calciatore offre i 75. Alla fine, se lui volesse restare al Galatasaray e i turchi offrissero 50, si potrebbe rifiutare rischiando di perderlo a zero?"
Sul fronte della tifoseria, la passione è sacra e non si confonde con analisi da salotto. "Conclusione sulla passione tifosa. Quella di chiunque – a prescindere dalle classi sociali di appartenenza e dai mestieri che si svolgono – è attitudine che non può essere confusa con alcun’altra: né con la competenza, né con le varie discipline che studiano il fenomeno calcio (dalla sociologia alla politologia, dall’etica all’antropologia). La mia autentica, folle, indomabile, indissolubile e non discutibile ‘malatìa’ per l’azzurro non mi impedisce affatto di (anzi, per certi versi, dovrebbe pretendere di) continuare di ragionare. Sia negli ambiti che mi sono propri (il diritto e la sua non opinabile applicazione alle regole del calcio), sia in quello in cui mi diletto, della competenza calcistica (pur avendo giocato e allenato a livello amatoriale – anche se federale – per più di cinquant’anni, non ho titolo per discettarne). E ragionare pubblicamente è esercizio del diritto fondamentale di cui all’art. 21 Cost.: la libertà di manifestazione del pensiero."
In tempi bui come questi, dove il dissenso è l’ultima trincea della democrazia, è bene chiarire che le opinioni espresse non cambiano con il vento. "Nonostante i tempi cupi che purtroppo stiamo vivendo, il dissenso resta la pietra angolare della democrazia. Come lo è la libertà d’informazione (sia di informare, sia di essere informati) che ne è diretta diramazione. Sì, proprio quella che dovrebbe costituire il luogo fisiologico e abituale di chi esercita la nobile professione di giornalista. Una professione che, non di rado – ahimè! –, viene tradita da chi, anziché servirne la causa ontologica (informare i cittadini), in via strumentale la piega ad interessi di parte, o addirittura la utilizza per dar sfogo ad inspiegabili ed immotivati istinti. Per quanto interessi qualcuno, e fermo restando tutto quel che ho sempre espresso (non sono aduso a cambiare idee disinvoltamente a seconda della convenienza), ritengo doveroso specificare che sul mio modesto pensare resta più d’un equivoco interpretativo. Da quanto ho scritto in questi ultimi anni, tuttavia, è comprovato che mai abbia manifestato convincimenti incoerenti con quelli poc’anzi ribaditi: sfido chiunque a trovare anche un solo passaggio in cui si riscontri il contrario". In fondo, nel calcio come nella vita, è la schiettezza che conta, non le favole politicamente corrette.