Davide Ancelotti si getta nell’arena del Botafogo: “Ho voluto la bicicletta e adesso pedalo!” #Ancelotti #Botafogo #CalcioBrasiliano
Davide Ancelotti, ora in bilico tra l’eredità di un cognome ingombrante e la dura realtà del campo, ha aperto il cuore in un’intervista alla Gazzetta dello Sport sul suo debutto come allenatore al Botafogo. Senza tanti giri di parole, ammette che la vita da capo è una sfacchinata: “Ho voluto la bicicletta e adesso pedalo. I dirigenti del Botafogo, i collaboratori, i giocatori e il pubblico mi stanno aiutando molto. Fare il primo allenatore comporta un dispendio di energie non indifferente: devi avere tutto sotto controllo, devi dare le linee guida, devi risolvere i problemi e solo alla fine devi anche pensare a buttare giù la formazione…”.
Quando gli chiedono se qualcuno gli abbia mai detto “ma chi te lo ha fatto fare?”, Davide non si tira indietro e risponde con una dose di realismo crudo, tipica di chi ha fretta di dimostrare il proprio valore: “Desideravo mettermi in gioco. A 36 anni, penso che sia naturale e umano tentare un’esperienza del genere. Mi sentivo pronto e mi sono buttato. E poi mi porto in dote una lezione, quella di mio papà: mi servirà moltissimo in questo percorso”.
Il peso del nome Ancelotti è un fardello che non si nasconde, e Davide lo ammette senza peli sulla lingua, paragonandolo a situazioni ugualmente “sfortunate” come quella dei Maldini: “Se fai l’allenatore, è pesantissimo. Non posso negarlo. Ma è pesante anche portare il nome Maldini per Daniel, dopo che Paolo è stato un monumento. E per Paolo sarà stato pesante iniziare dopo Cesare… È normale. So che verrò giudicato, specie in principio, perché sono il ‘figlio di Carlo’. E so anche che non sarà semplice superare i problemi e i pregiudizi. Però conosco un solo metodo per imparare a nuotare: tuffarsi in mare e muovere braccia e gambe. È quello che sto cercando di fare”.
Infine, sui consigli dal padre, che resta una figura discreta ma inevitabile, Davide dipinge un quadro di supporto senza troppi fronzoli: “Ogni giorno, è il mio primo tifoso. Soffre tantissimo le gare, mi chiede, ascolta ma sempre in modo discreto. Non è invadente. Lascia che faccia la mia strada e, solo se glielo chiedo, mi dà un suggerimento”. In un mondo calcistico dove le dinastie familiari spesso attirano più critiche che applausi, Davide sta pedalando forte, dimostrando che ereditare un nome non è un passe-partout, ma una sfida da affrontare a testa alta.