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De Canio: Tentato da Corbelli, poi due giorni di caos prima della firma

Luigi De Canio: Dal fango dei dilettanti al calcio che conta, senza troppi fronzoli!

Chi l’avrebbe detto che un tipo come Luigi De Canio, partito dai campetti polverosi, avrebbe scalato le categorie fino alla Serie A? È il classico story di chi non si è mai arreso, anche quando il pallone rotolava tra buche e promesse mancate. #CalcioVero #DeCanioCarriera #AllenatoriTosti

Luigi De Canio, classe ’57, ha iniziato la sua avventura nel calcio indossando le scarpette su campi di Serie C, giocando per squadre come F.C. Matera, Chieti, Brindisi, Salernitana e Livorno. Dopo aver chiuso la carriera da giocatore con Pro Italia Galatina, è passato al Pisticci, dove ha debuttato come allenatore, ricoprendo persino il doppio ruolo di giocatore-allenatore in Promozione. La sua ascesa è stata graduale ma tenace: nel 1997 è arrivato in Serie B con la Lucchese e poi al Pescara, sfiorando la promozione in A. L’anno successivo, nel 1999, ha centrato l’obiettivo con l’Udinese, terminando l’annata all’ottavo posto.

“Ne ho fatta di strada, perché ho cominciato nel 1988 a fare l’allenatore, facendo tutte le categorie, dai dilettanti alla Serie A. C’è di che essere soddisfatti”. De Canio non si è mai illuso di essere un fenomeno sul campo, ammettendolo senza troppi giri di parole. “Nel calcio semi-professionistico di Serie C si faceva molta difficoltà – ha spiegato De Canio, che è partito dai suoi esordi -. Quando mi sono accorto di non essere un calciatore di un certo livello, ho pensato che il futuro nel calcio poteva non essere per me. Ma sono sempre stato curioso, quindi in quegli anni leggevo tutto ciò che riguardava il calcio. C’era grande fermento a livello tecnico e tattico e io leggevo, mi informavo, mi costruii una mia idea di calcio, che però non pensavo di poter portare avanti. Ebbi l’opportunità di lavorare in banca, ma un presidente mi disse di non fare questo errore e mi ha spinto nel continuare col calcio, perché era sicuro che sarei arrivato in Serie A. Io ne ero meno convinto, a dire il vero, però mi ero costruito una base solida, sotto il piano della preparazione teoria e pratica. E poi, anno dopo anno, sono riuscito a crescere, fino ad arrivare nel 1999 in Serie A”. E di quegli inizi ricorda anche un episodio molto particolare. “All’inizio mi offrirono anche una panchina in C1, ma un direttore mi disse che poi sarebbe andato lui in panchina a dirigere la domenica e che avrebbe fatto lui la formazione. E rifiutai”.

Non pago, De Canio ha continuato a collezionare esperienze, dal Napoli in Serie B dove arrivò quinto, alle parentesi alla Reggina e Genoa, fino alle due stagioni al Siena che salvò dalla retrocessione. Ha anche provato l’avventura all’estero con il QPR in Inghilterra. Tornato in Italia, ha guidato Lecce riportandolo in Serie A, e poi Genoa, Catania, Udinese e Ternana. “Dopo i dilettanti volevo cercare di arrivare in alto, perché quella doveva essere il mio obiettivo. E poi la voglia anche di essere qualcuno. Anno dopo anno ho affrontato sfide particolari nelle varie categorie, ho fatto anche l’allenatore-manager per la prima volta a Carpi, perdendo anche qualche occasione di promozione per un soffio. L’approdo in Serie A è avvenuto all’Udinese, dove ho avuto la fortuna di allenare una squadra forte, con giocatori importanti come Locatelli, Muzzi, con la quale siamo stati anche in testa per un mese quasi. Era un calcio stellare, perché ogni squadra aveva dei grandissimi campioni. Tutti i calciatori più importanti erano in Italia, ed era difficile. L’Udinese, prima con Zaccheroni e poi con Guidolin, si era guadagnata il suo posto dopo le sette sorelle. E io arrivai dopo Guidolin, in un momento in cui serviva fare una rifondazione.

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Mi ricordo che quando firmai il contratto, Pozzo mi disse che era di tre anni ma che ne portava solo uno, perché non voleva rischiare, vista la mia poca esperienza a quei livelli. Dopo 18 giorni di ritiro invece venne Marino e mi disse che avrebbero depositato anche gli altri due anni di contratto. Credo abbia influito il giudizio dei calciatori, convinti dalle mie idee”.

Al Napoli, l’esperienza è stata tutt’altro che semplice: “Fui messo in contatto con Ferlaino, con il quale rimandai in attesa di capire se rimaneva in A o meno. Purtroppo la squadra retrocesse, io fui esonerato dall’Udinese perché pensavano che mi fossi promesso a qualche squadra durante un periodo non brillante, ma non era così, mi chiamò di nuovo il Napoli e mi propose due anni di contratto. Corbelli mi ingolosisce, perché poteva creare una squadra stellare per la Serie B e riportare il Napoli in A ad alti livelli. Accettai di scendere di categoria. Dopo due giorni dalla firma capisco le reali condizioni della società e vivo un momento tragico, perché penso di aver fatto un errore clamoroso. Ma alla fine accettai la sfida e per un pelo non ritornammo subito in Serie A. Fu un periodo difficile, con l’alluvione che ci portò fuori dal nostro stadio, poi i problemi finanziari, c’erano grandi difficoltà ma alla fine fui un punto di riferimento per quei ragazzi”. Poi, l’avventura al QPR con Briatore ed Ecclestone: “Ero a Londra perché ero la voce tecnica delle partite di Champions League per Mediaset. Ero lì per Chelsea-Real Madrid e ricevetti una telefonata da Briatore. Pensavo fosse uno scherzo, ma alla fine venne a prendermi qualcuno all’aeroporto e mi portarono da Briatore. Mi spiegò il progetto, pensai che fosse arrivato il momento anche per me per la grande occasione ed accettai con entusiasmo. Partii dalla Serie B praticamente. Briatore è stato un uomo eccezionale, aveva molto rispetto del mio ruolo, voleva sapere, abbiamo avuto un rapporto splendido”.

Una delle tappe più memorabili è stata al Siena, dove ha lavorato con Antonio Conte come collaboratore: “Perinetti mi chiamò a gennaio 2005 perché erano penultimi in classifica, Simoni non stava bene e spesso doveva lasciare al secondo. Per questo cambiarono tecnico e mi dissero di non portare se non un secondo e di lavorare con lo staff che già c’era. Avevo però dato la mia parola a Ventrone e gli dissi che se salvavo la squadra, mi sarei portato tutto lo staff mio. Così fu e Ventrone mi consigliò di portarmi dietro Conte, che aveva appena smesso di giocare. Avere persone di qualità attorno per me è solo un modo per fare meglio il mio lavoro, per questo gli dissi sì e convinsi anche Perinetti. Conte mi chiamò per un colloquio e mi chiese di utilizzarlo non solo per mettere i birilli in campo. E io gli dissi che sarebbe stato accanto a me per fare l’allenatore. E così è stato. Io ascoltavo le sue idee, spesso ce le scambiavamo e lavoravamo molto bene. Spesso lavorava con i difensori, poi con i centrocampisti, lavoravamo entrambi scambiandoci i reparti. Era un mastino già all’epoca. Mi ricordo la sua determinazione, la sua forza nell’imporsi con i giocatori. E qualche volta qualche scontro verbale ci fu con Tudor, che avevo in rosa”.

De Canio conclude riflettendo sui talenti incontrati: “Il più forte che ho allenato ma che non è esploso veramente, perché è stato molto sfortunato, è Ciro Caruso, ragazzo della nidiata di Cannavaro, giocava nel Napoli Primavera da difensore centrale. Ha avuto una carriera frenata da una miriade di infortuni gravi. Per me era un fenomeno vero”. La sua storia è quella di un allenatore che, tra alti e bassi, ha sempre giocato sporco quando serviva, dimostrando che nel calcio, a volte, la vera abilità sta nel non arrendersi mai.

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