Un giorno lontano nel tempo il ‘paron’ Nereo Rocco, allenatore-rivale del Milan, gli disse: “Sento spesso parlare di uno scambio fra te e uno dei nostri, se vieni al Milan – assieme al Gianni (Rivera, ndr) – e uno che la butta dentro, facciamo almeno 100 gol”. Sandro Mazzola, che domani varcherà a petto in fuori e con la schiena sempre dritta la soglia degli ottanta autunni, in rossonero in realtà non ci finì mai. Ma il suo dualismo con il ‘Golden Boy’ è rimasto in qualche modo la cifra di anni calcisticamente indimenticabili, anche più del cognome ereditato da papà Valentino.
Gli 80 anni di Mazzola: il dualismo con Rivera
“Dove giocherebbe oggi Sandro Mazzola? In Spagna, al Real Madrid“, dice all’ANSA il festeggiato dalla sua casa milanese, rivendicando come sempre un talento a volte oscurato dal paragone con Rivera. Al Mondiale messicano, che l’Italia chiuse alle spalle del Brasile campione, passò il messaggio che i due ‘Golden boy’ non avrebbero potuto giocare assieme. O Rivera o Mazzola, insomma: almeno in campo, perché fuori i due grandi rivali del calcio milanese si erano uniti per la fondazione del sindacato calciatori, nel ’68. Ma in nazionale, nel primo tempo, quando la partita si consumava su ritmi più elevati, in campo c’erano i baffi di Sandrino, anzi il ‘Baffo’, come fu ribattezzato; nella ripresa toccava al Gianni, visto che il “ritmo calava”.
Non fu così in finale all’Azteca contro il Brasile e lo stesso Pelè si stupì non poco: “Se riescono a tenere fuori uno come Rivera, quanto saranno forti gli altri?”, esclamò. Ma quella dei 6 minuti di Rivera è un’altra storia. Anche Sandro Mazzola finì nella lista degli ‘abatini’ stilata da Gianni Brera, che comprendeva gente come appunto Rivera, De Sisti, Bulgarelli. Lui, cresciuto fra ‘veleno’ Benito Lorenzi, Pepìn Meazza, ma soprattutto nel ricordo del mito di papà Valentino, talmente grande da saper difendere e poi risultare capocannoniere a fine stagione, in quel calcio schematico e ‘bloccato’.
Gli 80 anni di Mazzola: l’eredità di papà Valentino
Il Grande Torino finì di vincere sulla collina di Superga, per un sinistro scherzo del destino; Sandro Mazzola perse il proprio punto di riferimento, e con lui suo fratello Ferruccio. Ma il suo personalissimo pallone continuò a rotolare sull’erba e nel fango. Il ‘mago’ Herrera, uno che dava del lei ai giocatori, e che resta unico per come assaporava il calcio, lo lanciò in orbita e lui finalmente riuscì a scrollarsi di dosso l’etichetta di ‘figlio d’arte’. Ne passarono di anni, di gol ne dovette segnare tanti, prima di mettere fine alle voci di taluni che puntavano il dito, affermando che “quel Mazzola lì ha solo il nome di suo padre, il resto è niente….”.
Un peso che, dopo aver firmato una doppietta contro il grande Real Madrid al Prater di Vienna nella prima finale della Coppa dei Campioni vinta nel ’64 dai nerazzurri di Angelo Moratti e del ‘mago’ Herrera (Carosio lo chiamava ‘Mazzolino’ in telecronaca), si scrollò definitivamente di dosso. Due anni dopo fu coinvolto nella disfatta della Corea, assieme alla meglio gioventù azzurra. Tornando da quel Mondiale inglese alcuni salutarono la Nazionale, lui, Rivera, Albertosi, Facchetti, no. Oltre ai trofei con i nerazzurri, contribuì al primo titolo europeo dell’Italia, a Roma, nel 1968. Da attaccante si trasformò in mezzala di punta, come si diceva allora, ma non perdendo il vizio del gol.
A Messico ’70 il capo-delegazione azzurro Walter Mandelli e il ct Ferruccio Valcareggi misero in piedi la sceneggiata della staffetta che, in realtà, si materializzò solo in due partite: nel 4-1 al Messico e nel 4-3 alla Germania Ovest. Una forzatura sulla quale la stampa dell’epoca costruì grattacieli di parole, insinuando anche trame oscure ordite per boicottare il ‘Golden boy’ milanista. L’anno dopo il Mondiale messicano, l’Inter di Mazzola si riprese lo scudetto e l’anno dopo ancora (1972) sfidò perfino l’Ajax del calcio totale a Rotterdam in una finale di Coppa campioni impari persa ‘solo’ 2-0.
Mazzola, veloce e imprendibile, continuò a disegnare traiettorie sul campo e a dispensare calcio geometrico, fra soluzioni pragmatiche e devastanti accelerazioni. L’ultima rappresentazione il 3 luglio 1977, nell’ennesimo derby della Madonnina, questa volta valido come finale di Coppa Italia: fu una sconfitta per l’Inter e, per Sandrino la fine di una carriera tutta di corsa, fra dribbling frenetici e gol-lampo.
Divenne dirigente e opinionista, segnalandosi per sobrietà e raffinatezza, fu lui ad avviare il commento tecnico durante le partite. Domani, quando avrà tagliato il traguardo delle 80 primavere, magari sorriderà sotto i baffi e penserà a papa Valentino, di come il destino crudele gliel’abbia strappato troppo in fretta e alla sua mano sul capo quando entrava in campo in un Filadelfia di colore granata.
“Festeggerò come sempre – confessa, all’ANSA, Mazzola – con i miei figli: ogni anno, al mio compleanno, si presentano tutti qui a casa e mi portano il ‘regalino’. Dopo una vita di calcio e cose belle, è la più bella che mi godo agli 80 anni. Ex compagni ne sento pochi, siamo vecchi… Ma il calcio lo guardo ancora, per divertirmi e per fare confronti. Dove giocherebbe oggi Sandro Mazzola? In Spagna, sicuro: nel Real Madrid. Il ricordo più bello è Real Madrid-Inter, sognavo da una vita di incontrare il mio mito, Di Stefano, e poi fini’ come fini’…”.